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martedì, Novembre 12, 2024

Amartya Sen, Globalizzazione e libertà

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“La contemporanea presenza di opulenza e agonia nel mondo che abitiamo rende difficile evitare interrogativi fondamentali sull’accettabilità etica dell’organizzazione sociale prevalente e sui nostri valori, la loro rilevanza e la loro portata” (Amartya Sen, Globalizzazione e libertà, Milano, Mondadori, 2002, p.11). Poste all’inizio di un capitolo intitolato Globalizzazione: valori ed etica, queste parole spiegano quale sia l’interesse di Amartya Sen, quali le sue perplessità, quale il suo stesso programma di lavoro non esclusivamente economico, né esclusivamente filosofico. Globalizzazione e libertà raccoglie una serie di interventi di Sen -premio Nobel per l’economia- in occasione di interventi pubblici in cui, con la sobrietà e la lucidità intellettuale che lo contraddistinguono, prende posizioni su argomenti quali il sovrappopolamento mondiale, la povertà, i diritti umani, il ruolo dei valori nello sviluppo economico di un paese, il rapporto (di sudditanza?) tra l’Occidente e il resto del pianeta, la libertà, le disuguaglianze, lo sforzo di formulazione di una teoria della giustizia dai tratti decisamente ampi, e le diatribe rispetto al ritorno dell’idea di appartenenza comunitaria. Tutti temi molto cari all’economista indiano, che però in questa occasione vengono collegati da un filo rosso che li colloca a pieno titolo nel dibattito contemporaneo sulla globalizzazione; dibattito, purtroppo, spesso di livello non alto e giornalisticamente incentrato a narrare le gesta dei cosiddetti no-global e delle cosiddette forze dell’ordine piuttosto che a focalizzare i grandi temi che ci riguardano e che ci hanno trasformato in una comunità globale a rischio.
Nel testo in questione, Sen, in riferimento al contesto globale, è come se volesse sottolineare la necessità, per le scienze e i saperi, di riferire la propria riflessione a un processo certamente non nuovo ma giunto allo stato attuale in una fase culminante e, almeno fino a pochi decenni fa, difficilmente prevedibile. Un processo che non può non investire anche la riflessione pedagogica, a maggior ragione la riflessione di quegli studiosi che ne auspicano una riconfigurazione in senso interculturale. In realtà, tra i temi della scienza dell’educazione va individuata una riflessione volta alla ricerca di orientamenti valoriali erga omnes, quindi interculturali e cautamente universali, i diritti umani, le possibili strategie di interiorizzazione e di formazione alla cittadinanza globale, i tentativi di fare incontrare le differenze culturali senza che vi sia prevaricazione. Tutti temi che vanno (ri)definiti all’interno di un contesto globalizzato e ad altissima interdipendenza. Valgano queste spiegazioni a giustificare l’interesse per un autore che non si è mai esplicitamente occupato di pedagogia.

Il testo in questione ha un forte carattere divulgativo. Rispetto ad altre fatiche Seniane di lettura ben più impegnativa, infarcite di tecnicismi richiedenti una certa competenza specifica, mirate a sviscerare con dovizia di dati e argomenti una tematica singola (per quanto questo sia possibile) inserita in dibattiti scientifici non alla portata di tutti, Globalizzazione e libertà non presenta eccessive difficoltà e si presta a essere fruito da un pubblico di lettori più vasto.
Ciò, d’altro canto, potrà spingere molti ad avvicinarsi ai lavori di Sen, esplicativi della loro importanza nel campo delle scienze economiche degli ultimi 30 anni, soprattutto per lo sforzo di compatibilizzare le specificità tecniche -a torto disumanizzate e sussunte in un olimpo privo di regole- con la riflessione etica.

Sen invita a interpretare la globalizzazione come un processo secolare che, negli ultimi dieci anni, ha subito un’accelerazione di cui criticamente vengono individuati i caratteri distorti. Fra questi, quello più rimarchevole sembra essere rappresentato dalle enormi disuguaglianze che il mercato genera non soltanto all’interno delle comunità statali ma anche tra Stati e Regioni, a causa di una distribuzione non equa della ricchezza prodotta. L’intervento delle istituzioni (globali?) che potrebbe quanto meno ammortizzare i costi sociali pagati dai soggetti più deboli, dovrebbe essere sorretto da una autorevole teoria della giustizia che possa giustificare, all’insegna dell’imparzialità, eventuali azioni (re)distributive, volte a combattere disuguaglianze sostanziali. Per questa ragione, nel terzo capitolo, Sen si confronta con la teoria rawlsiana della giustizia come equità, per scoprire se il punto di vista contrattualista del filosofo americano abbia le carte in regola per rispondere alle esigenze del mondo globalizzato, anche in relazione al fatto che una delle sue opere (Il diritto dei popoli, Torino, Comunità, 2001) si concentra proprio su questo tema. Sen, premettendo sempre il debito intellettuale nei suoi confronti, non è nuovo a polemiche con John Rawls. In altre occasioni aveva tacciato di “feticismo” la sua teoria sulla redistribuzione equa dei beni primari, qui si concentra invece sul carattere internazionale della teoria della giustizia esplicitata nel testo “Il diritto dei popoli”. Il modello rawlsiano viene infatti applicato inizialmente alle singole società specifiche, per allargarsi, poi, internazionalmente attraverso legami tra nazioni e popoli che, a loro volta, stipulano norme intersocietarie a seguito di consessi strutturati nell’ottica di una posizione originaria internazionale.
Sen, dal suo canto, ritiene invece che una teoria della giustizia debba avere tratti globali più che internazionali, dal momento che l’identità di un soggetto non è esclusivamente connotata dal fare parte di un popolo o di una nazione o, come ritengono i comunitaristi (cap. III La minaccia della frammentazione), dalla scoperta di limiti percettivi che restringono i giudizi morali alle convenzioni della comunità culturale di appartenenza, si contraddistingue piuttosto per le affiliazioni plurali che definiscono un soggetto in possesso di identità multiple, talora in concorrenza, che prevalgono in contesti specifici, disegnano molteplicità di solidarietà possibili e richiedono una teoria della giustizia globale. Inoltre, secondo Sen, il contrattualismo sarebbe inadeguato a formulare decisioni (giuste) in merito a scottanti problemi globali, quale quello dell’incremento demografico, che non si adatta all’esigenza contrattualista tra la congruenza tra giudicati e giudicanti, perché riguarda gruppi di partecipanti variabili. A tale proposito i neo-malthusiani prospettano imminenti crisi apocalittiche derivate dal sorpasso della crescita della popolazione rispetto alla produzione del cibo, e leggono l’incremento demografico in Asia e Africa come uno sbilanciamento pericolosissimo. Tuttavia Sen sostiene (Ambiente, popolazione ed economia mondiale, cap. VII) che la produzione di cibo non sia stata superata dalla crescita delle popolazioni del terzo mondo e che il problema della fame andrebbe sviscerato attraverso ragionamenti complessi in grado di indicare che:

1) in un mercato deregolamentato la produzione di cibo non attiene soltanto alle richieste di chi ne ha bisogno ma reagisce anche a variabili quali il calo dei prezzi delle derrate alimentari di prima necessità che ne rendono meno redditizia la produzione disincentivandola;
2) storicamente le peggiori carestie non sono da attribuire alla mancanza di cibo ma alla penuria di risorse da parte dei più deboli per procurarselo, senza l’attivazione di soluzioni adeguate da parte delle istituzioni preposte;
3) il problema dello sbilanciamento demografico si svuoterebbe di senso qualora si considerasse il fatto che la presunta naturalità dell’espansione demografica europea è il frutto della rivoluzione industriale e del consolidamento del capitalismo, esattamente allo stesso modo in cui l’allargamento del mondo globale sta generando sviluppo demografico nel terzo mondo.

La spiegazione del miracolo economico asiatico è stata invero trovata nella peculiarità dei “valori asiatici” che, grazie a un’etica “forte”, avrebbero permesso un simile sviluppo, proprio come Max Weber sosteneva che il nerbo spirituale del capitalismo europeo risiedesse nell’etica protestante. Sen, pur credendo che i valori svolgano un certo ruolo nella vita economica di una regione, non pensa sia possibile, visto l’eterogeneità di fatto, definire una lista di “valori asiatici”; questi ultimi possano, infatti, spesso trasformarsi in strumenti di copertura ideologica. A questo proposito, una parte importante di Globalizzazione e libertà è dedicata alla presunta dicotomia tra diritti umani di origine occidentale e “valori asiatici” centrati sulla nozione di dovere nei confronti della comunità tradizionale, e quindi lontanissimi dall’individualismo che permea il linguaggio dei diritti. Sen non crede nemmeno a queste argomentazioni in virtù dell’assoluta eterogeneità della tradizione asiatica e ritiene che, benché formalizzati nel contesto europeo, i diritti umani non abbiano (storicamente) una paternità esclusivamente occidentale e la loro diffusione non vada intesa come un’esportazione di civiltà al pari dello sviluppo economico. Sviluppo, del resto, di per sé non è sinonimo di benessere, e i soggetti vessati da gravi disuguaglianze (tanto nei paesi del terzo mondo quanto negli strati sociali in fase di pauperizzazione economica e culturale del primo mondo) non possono giovarsi dell’economia di mercato o della tutela dei diritti, che non hanno la possibilità di esercitare, se non si agevola l’operato delle “organizzazioni non-market che diffondono l’istruzione, l’epidemiologia, il microcredito, le appropriate difese giuridiche e altri strumenti di autonomia individuale” che devono essere considerati mezzi per accedere all’economia di mercato e ai processi decisionali dell’intero corpo sociale.

Sen propone  una equa e diffusa distribuzione di “capacità di funzionamenti fondamentali” intorno alle quali in testi come “Scelta, benessere, equità” o “La diseguaglianza”, ha costruito una teoria egualitaria con fortissime implicazioni pedagogiche.

Rosalba Pipitone

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