Deriva dall’arabo Rahal Maut, “villaggio morto”, perché quando gli arabi vi giunsero, trovarono la popolazione quasi sterminata dalla peste; molti traducono con “villaggio diroccato” perchè sorgeva sopra le rovine di un altro antico paese, forse di origine sicula o colonia agrigentina, Racalmuto, comune del libero consorzio di Agrigento in Sicilia, è il paese che ha dato i natali a Leonardo Sciascia e dove lo scrittore trascorse l’infanzia e parte della vita adulta nella casa di via Regina Margherita 37, ribattezzata via Leonardo Sciascia dopo la sua morte, avvenuta nel 1989.
È del 1997 l’inaugurazione della statua bronzea ad altezza reale, opera dello scultore Giuseppe Agnello, che lo immortala sul marciapiede di corso Garibaldi mentre passeggia con l’irrinunciabile sigaretta in mano. Ma se da una parte della strada si celebra la persona, lo scrittore, la vita e le opere di Leonardo Sciascia, dall’altra sembra si celebri uno strumento di tortura al quale il Sant´Uffizio di Palermo, la Santa Inquisizione siciliana, legava per il collo bestemmiatori e peccatori, e la ricorda proprio Sciascia la tortura nel romanzo “Morte dell’Inquisitore” incentrato sulla vicenda seicentesca di un frate accusato di eresia, la gogna riservata ai rei esposti agli insulti, alla vergogna, all’infamia e lasciati a lungo in pasto alle mosche.
U cuddaro, il collare, era, spiega il letterato ed etnologo Giuseppe Pitrè, “un arnese di ferro che si apriva e chiudeva con apposito congegno in tutto e per tutto simile a quello dei cani, attaccato al muro o ad un palo. Nudo dalla cintola in su, e convenientemente unto di miele, il bestemmiatore veniale vi restava esposto per qualche ora (…) non più di 3”. Per ironia della sorte sono finiti, uno, Sciascia, da una parte e l’altro, il palo, nella parte opposta; per togliere ogni dubbio che è di questo che si parla, vi si legge in bella mostra sul muretto, una targhetta che recita “Lu cuddaru”.
Si dirà che il palo veniva restaurato, proprio nel trentesimo anno dalla morte dello scrittore, per rinnovare la memoria di uno strumento di tortura affinché tutto ciò non accada mai più, e non è questa la sede per giudicare la volontarietà o meno del gesto, ma appare bizzarro, quasi uno sgarbo alla memoria di Sciascia che su questi temi si è speso abbastanza anche nei suoi libri come “Consiglio d’Egitto”, denuncia contro i metodi della tortura e la pena di morte, o “Morte dell’Inquisitore” di cui si parlava sopra, dedicato ai suoi paesani racalmutesi “vivi e morti, di tenace concetto”. Deve essere una strana legge del taglione se oggi da una parte della strada si celebra la memoria di Sciascia, che della tortura ne aveva orrore considerandola un abominio, e dall’altra a pochi metri dalla statua di Sciascia, il palo e “u cuddaru” che fanno rivivere gli anni più bui della Sicilia, più in generale dell’intera Europa, con le infami colonne dove migliaia di persone furono svergognate e messe alla berlina. Volontarietà o no, il punto è che non si comprende la finalità: se da un lato si dice che la nuova piazza Francesco Crispi in passato era il luogo dove si passeggiava, ci si incontrava, si stava seduti al bar, dall’altro si vuole portare alla memoria cittadina la finalità seicentesca di “lu cuddaru”, con un palo a centro rappresentativo di una delle torture applicate nella piazza durante la Santa Inquisizione.
Lo ricorda lo stesso Sciascia negli anni Sessanta che quel luogo era ricordato come la piazza delle torture, era soddisfatto del fatto che i racalmutesi avessero rivestito con diverso nome quel luogo, cancellando dal luogo fisico come la piazza di un paese, quell’infame ricordo.
Aver rispolverato la memoria, in modo plateale, a centro di piazza, potrebbe considerarsi fuori luogo, fuori tempo e di dubbia interpretazione.
Rosalba Pipitone