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domenica, Ottobre 13, 2024

La bellezza contro la retorica

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Beh sì, è vero. Che “se si insegnasse la bellezza alla gente la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione”. Lo diceva Peppino Impastato, mentre sfidava, picciutteddo, nientepopodimeno che Don Tano Badalamenti, il boss. Lo chiamava Tano Seduto, dalla radio che aveva fondato con altri giuvinazzi, che non erano così convinti del fatto che le autostrade per Palermo dovessero fare a zig zag, e che gli aeroporti fosse cosa buona costruirli vicino alle montagne. Che strano, no? Eppure, mafia a parte, la lezione della bellezza resta una lezione per tutti. Una lezione contro la rassegnazione, dicevamo. Anzi, diceva Peppino. Ogni volta che Ismaele, nel Moby Dick di Melville, giunge al limite della esasperazione nei confronti degli uomini che affollano la terraferma, quando è ad un passo dal metter scoppole ai passanti, così a caso, come in Amici Miei, allora si imbarca. Il mare è il suo antidoto alla follia degli uomini. È una fuga, comunque. E molti di noi sono simili all’Ismaele di Melville. Niente di orrendo. Tutto molto umano. Altri, invece, hanno dentro il fuoco di Peppino e dei suoi amici di Radio Aut, e piuttosto che imbarcarsi per sfuggire alla terraferma e al suo trionfo di narcisismo e ipocrisia, di falchi travestiti da colombe, di colletti bianchi che nascondono mani lercie, di angioli che in realtà sono demoni, rischiano di trasformare il mondo brutto, in un mondo migliore. Naturalmente questa operazione è rischiosa. Così come la bellezza. Quella vera, che non è né orpello né topazio, ma sinceramente adesione ad un valore. Peppino per quel valore c’è morto. Lui, figlio di mafioso, non si è imbarcato su una nave, ma ha provato a far belle le cose sulla terra. La bellezza contiene dunque un pericolo, dunque. O forse è un pericolo per il quieto vivere, per la zona grigia, per l’empietà, per l’arrivismo, per l’individualismo. Per questo dovremmo poterla insegnare alla gente, la bellezza, affinché le orrende tendine che nascondono il muro della villetta di fronte, ci sembrino finalmente brutte. Affinché la pioggia di aggettivi che qualcuno usa come olio per forzare le parole, ci sembri finalmente retorica. Affinchè torni lo schifo e l’indignazione verso l’abuso di potere, e della sua corte di stagione. Affinchè ci si ritrovi a percepire che bello è pericoloso ma è il nostro destino. Non è un contentino, il bello. Non è muro impupato con l’edera finta. Non è ricamo barocco e bizantino. La bellezza è semplice, asciutta, e poco volatile. E ricorda sempre che sì, per essa si può anche morire. Nella speranza che qualcuno domani non si accontenti del ricamino, del merlettino, del suo pomodorino dentro il suo arancino, come cantava un incazzato Vecchioni in “Signor Giudice”. Allora bisogna che troviamo la forza di provocare le nuove generazioni alla bellezza. Che non è corteggiarli con la compiacenza, l’accondiscendenza, ma essere il non-Io contro cui impattano per formarsi. Non per transitare. Ecco, la bellezza è un grande Non da elaborare, e spesso traluce di forza nella sua dolorosa ma coraggiosa forza di opposizione. Anche quando fuori nevicano banalità. Anzi, proprio quando attorno piovono banalità.

Giacomo Bonagiuso

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