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giovedì, Novembre 7, 2024

bro di pol Russo

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Sembra che queste “Caramelle nel taschino”, come tutte le caramelle che si rispettano, siano destinate a squagliarsi, a sedimentare macchie sul tessuto, a non star comode come quelle in astuccio. Sono di tanti gusti, poi, queste caramelle, e di tanti gusti sono destinate a lasciar traccia, a rischio di qualche macchia, di qualche incrostatura.

È questo il primo sentore che resta in bocca, vischioso e dolceamaro, nelle parole rilette, e in quelle riviste con gli occhi, dopo la lettura dei versi giovani e talvolta amari di Carol Russo, alla sua prima esperienza editoriale per i tipi di Nullodie.

Belle poesie, senza titolo, senza retorica, perché le caramelle non sono mica biscotti della fortuna, che di sbriciolano, ma puoi rimuoverli dal taschino con un po’ di pazienza, ma sono sentieri nel bosco che preludono a smarrimento.

Queste Caramelle non sono facili. No. Nè sono risarcitorie o piacione. Sono destinate a ‘mpiccicarsi addosso, e la parola siciliana per una ragazza sarda non è arrischiata, visto che la Russo ha fondato #siciliansays e forse tradurrà pure ‘mpiccico nelle sue fortunate serie.

Certo è che questo libro un po’ di mpiccico addosso te lo lascia.

“Ho sbattuto la porta,

Ho sbattuto la testa,

Ho trovato risposta,

In un giorno di festa.”

Usa bene le assonanze l’autrice, e sa gestire bene la musicalità del verso che, pur libero, non è mai una serie di “a capo” chissà perché, come troppo poetare contemporaneo.

Carol Russo usa bene la misura del ritmo, la forza dell’immagine e ti porta dentro le sue tasche gonfie di esperienze, esperite, evocate, deluse, perse, sognate.

Spesso sa che in poesia “non è giusto neanche il verbo”, quando le cose che vorresti dire eccedono la misura del discorso, del dialogo, del racconto. Russo sa che la poesia nasce per evocare e non per spiegare. Non è un saggio e non è un tema, la poesia. Ma ridda di immagini, idola, suoni, ossimori. “Tra le fiamme / mi gelo”, scrive, consapevole di stare in bilico tra matriosche che possono essere gabbie e squarci, di luce e di ombra, di amore e guerra.

“E gli uomini che,

nella notte priva di ogni rumore,

si abbattono

sì mordono

come cani

e si accorgono di avere

troppe mani”.

Ancora buone assonanze per una immagine riuscita. Che sembra predire la contemporaneità del potere, della storia che si ripete. Purtroppo.

Eppure, tra vischio e zuccheri sedimentati nelle tasche, emerge forte una luce di salvezza. Lo chiameremmo amore, senza per questo finire in miele, una cosa che abbiamo cominciato in chiaroscuro. Amore chiaroscuro, voluto e ancorato, vicinissimo e lontano. A-mors, che vince dolore, mancanza e lamento. Ma non senza fatica.

“E adesso non esisti,

come un profondo mistero,

come quelli che credono

di immergersi e resuscitare,

come i tesori del mare,

e come le parole,

e se mi addormento

forse fa meno male

pensare e naufragare,

ma quel che appare

e che non vedo

sono sogni come palloncini

da lasciare andare”.

È un amore da desiderare, quindi Da volere, da cercare. Forse un amore senza favola, da costruire.

“Io vorrei questo Sole

dentro una stanza,

dentro le ossa,

in una casa,

in tutta una vita”.

È sicuramente questo il senso generale di queste caramelle. Stare nel taschino a rischio di squagliarsi al sole e lasciare macchie. Perché la vita arrischia sempre ma sempre vale la pena di esperire.

“Si vive di piccoli scarti di felicità,

sui piatti del lavandino,

quando fuori piove

e racchiudi il senso di ogni cosa

dentro una goccia sulla finestra

o quando hai paura di dormire sola

e torneresti bambina

a cullarti tra le braccia anche di tua madre”.

A volte il verso si fa più prosastico e perde la canzone, perché la vita ha spigoli e forme cave, e per il poeta questo è un viaggio sempre curioso, fatto di osservazione timida e di qualche rimpianto: “Oh Santa Inquisizione / non avere peccato di più / non avere sfidato di più / col gruppo in gola / di parole d’amore celate”.

Vorremmo consigliarlo questo libretto, primo perché di poesia c’è bisogno, come di aria e di terra, e poi perché questi versi giovani traducono tutto il possibile travaglio di una vita ancora breve che ha da esprimere forza e fragilità. Abbiamo bisogno di poesia, di poeti che si aprono alle nostre fragilità con confidente pazienza e che trovano ferite e speranze da assecondare. Perché abbiamo bisogno di condivisione in un tempo che fa finta di condividere ogni cosa e di fatto nulla condivide.

Giacomo Bonagiuso

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